Supplì al telefono alla romana

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Suppli al telefono alla romana

Una mancanza gravissima non avere in questo sito la ricetta dei Supplì al Telefono alla Romana. Ce ne siamo accorte quando Risate e Risotti ci ha invitato ad un contest sulla pubblicazione di Supplì, SuppliTIAMO dove chiunque poteva partecipare alla realizzazione di uno degli street food più amati.
Ovviamente c’era spazio alla fantasia, ma noi non potevamo proprio non pubblicare il Supplì per eccellenza, quello che non si trova più, anche perchè non a tutti è gradito il sapore leggermente ferroso delle regaglie di pollo.

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Carciofi alla Matticella, storia e leggenda

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Dei Carciofi alla Matticella si trovano tracce in alcuni scritti dei Gesuiti che governarono la città al tempo dello Stato della Chiesa, come pure nei racconti dei nonni, tramandati di generazione in generazione.

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In tempi lontani, quando i lavori nel vigneto venivano eseguiti interamente con le braccia, il contadino escogitava soluzioni ingegnose per ridurre la fatica. Una di queste consisteva nel piantare alla fine dei filari delle viti (le “capocciate”) delle piante di carciofi, che non amano terreni particolarmente lavorati e consentono di non zappare la “capocciata”.

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Uova in trippa, sì! Ma alla romana!

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Le uova in trippa! Una bontà! Uno di quei piatti così semplici dei quali ce ne stiamo completamente dimenticando, ma che portano gioia in tavola. Semplici ingredienti sempre presenti in casa, velocità d’esecuzione e palato felice! 

E se Giaquinta aggiunge “alla romana” alla ricetta, Ada Boni le reputa di gran lunga più buone delle francesi Oeufs à la tripe, peraltro fatte con uova sode, sugo e besciamella!! Qui siamo in tripudio di sapore genuino! Il nome deriva dalle striscioline delle frittatine che venivano condite con sugo e… per ingannare ancora di più il palato, il piatto veniva insaporito con foglioline di menta e pecorino o parmigiano. La ricetta affonda le sue radici nella cucina povera romana.

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Pizza di polenta con uvetta e pinoli

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C’era una volta… e oggi non c’è più! E sì! Perché una volta la pizza di polenta con uvetta sultanina e pinoli faceva sempre capolino nel banco di esposizione del fornaio di quartiere. Con i suoi colori dorati, tempestata dei gioielli nostrani [uvetta e pinoli] faceva la sua bella figura tra una teglia di castagnaccio, di pizza rossa e di quella bianca. Tutto ci faceva venire l’acquolina in bocca!  E così ogni tanto la colazione per scuola suonava così: «Che me dai 30 lire de pizza e uvetta?».

Realizzarla è estremamente semplice, un ottimo modo per riciclare la farina di polenta avanzata, un pugnetto di pinoli e uvetta… Basta procurarsi un po’ di ricotta fresca!!

  • 300 g di ricotta
  • 300 g di farina di polenta
  • 150 g di zucchero
  • 1/2 cucchiaio di cannella in polvere
  • un pugno di pinoli
  • un pugno di uvetta sultanina
Ingredienti per una teglia di 30 cm

Preparazione della Pizza di polenta con uvetta e pinoli

L'esecuzione della ricetta della Pizza di polenta con uvetta e pinoli direttamente da Madame Ada Boni, tratta dal suo libro 'La cucina romana'
Mettere in una terrinetta la ricotta e scioglierla con un ramaiolo di acqua tiepida mescolando con un cucchiaio di legno. Quando la ricotta sarà sciolta si aggiunge lo zucchero e si mescola ancora un poco per amalgamarla bene. Si aggiunge allora un po’ alla vola la farina di polenta distribuendola con la mano sinistra, mentre con la destra si continuerà a mescolare. Man mano che il composto indurirà troppo si aggiungerà altra acqua tiepida, regolandosi di ottenere come una crema non troppo densa né troppo liquida. Si aggiunge allora la cannella in polvere e la sultanina, la quale sultanina va prima mondata e poi tenuta a rinvenire per qualche minuto in una tazzina con un pochino di acqua tiepida. Molti adoperano lo zibibbo in luogo della sultanina, ma quest’ultima è preferibile perché priva di semi. Si unge di strutto una teglia [io ho sostituito con il burro] di circa 30 cm di diametro, ci si versa il composto e su esso si seminano i pinoli. Si ultima la pizza mettendo ancora qua e l qualche pezzetto di strutto [burro] e si passa la teglia in forno di giusto calore per circa tre quarti d’ora fino a quando la torta sia bene asciutta ed abbia fatto una bella crosta dorata. Questo genere di pizza deve essere piuttosto bassa: circa un dito.

Ecco qua! Se amate un gusto un po’ ruvido, rustico, croccante e profumato, basta provarla! Sfornate

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Tagliate e gustate!

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Alla prossima!!

Trippa alla Romana

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La trippa è l’apparato digerente dei bovini, una frattaglia, compresa fra esofago e stomaco; dopo la macellazione viene sottoposta a pulizia e bollitura. È composta da rumine (la parte a forma di sacco più grande, detta anche trippa, croce, crocetta, pancia, trippa liscia o busecca), omaso (formato da lamelle, detto anche centopelli o foiolo) e reticolo (o cuffia, un piccolo sacco con aspetto spugnoso, detta anche cuffia, nido d’ape, bonetto o beretta). I greci la cucinavano sulla brace, mentre i romani la utilizzavano per preparare salsicce. Le ricette per la preparazione della trippa sono infinite: non vi è angolo d’Italia che non abbia una sua ricetta per la trippa. 

Dal punto di vista nutrizionale è un alimento molto valido perché ha un contenuto molto elevato di proteine e vitamine e basso in grassi. Per 100 g abbiamo: carboidrati: 0; proteine: 12,07; grassi: 3,69; acqua: 84,16; colesterolo: 122; sodio: 97; calorie: 85. Inoltre troviamo una presenza abbondante di sostanze minerali, specialmente calcio e fosforo.

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Come appena descritto, la trippa fa parte della cultura culinaria di tutta Italia e direi del Mondo. Cercando in rete ho trovato addirittura un libro “Troppa trippa”, di Indro Neri, Neri Editore, Firenze 1998, 192 pagine, una ricerca di tre anni che descrive le ricette di tutto il mondo ma anche le citazioni letterarie o i dipinti a lei dedicati o le poesie.

Come diceva il Belli la trippa va mangiata di sabato e in buona compagnia. “Giovedì gnocchi e sabato trippa”, uno dei proverbi romaneschi che ben indica questo gustosissimo piatto. È un piatto che, come molti altri a Roma, non ha molti fans a causa delle origini “truculente”, ma basta assaggiarlo una volta e si diventa subito amici. Nelle trattorie di Testaccio, (quartiere cult di Roma), si trova ancora l’antica ricetta.

Nel Settecento, Francesco Leonardi, un cuoco nato a Roma, ma specializzatosi tra i potenti del mondo, dal maresciallo Richelieu alle corti di Polonia, Germania e Inghilterra, con il suo “Apicio moderno”, tra tante squisitezze e raffinatezze riportate spicca, per quanto riguarda la cucina romana, la ricetta della Trippa di manzo alla romana: “Quando la trippa di manzo sarà ben pulita e lavata, fatela cuocere con acqua, sale, una cipolla con tre garofani, un mazzetto di petrosemolo con sellero, carota, due spicchi d’aglio, mezza foglia d’alloro; fatela bollire in una marmitta a picciolo fuoco sei o sette ore, che sia ben schiumata; quando sarà cotta, tagliatela in quadretti, mettetela in una cazzarola con un pezzo di butirro, sale e pepe schiacciato, passate sopra il fuoco, aggiungeteci un poco di spagnuola e culì. Abbiate un piatto con un picciolo bordo di pane o di pasta, fate un suolo di parmigiano grattato e un suolo di trippa, e così continuate fino a tanto che il piatto sia sufficientemente pieno, terminando col parmigiano grattato, nel quale avrete cura di mescolare un poco di menta trita; ponete alla bocca del forno o sulla cenere calda acciò prenda sapore, e servite ben calda”.
Una curiosità: “Nun c’è trippa pe’ gatti” così cita un detto popolare romano. Ma qual è l’origine di questa frase? Alcuni detti popolari giunti fino a noi, condensano in poche parole il senso della crisi, della mancanza di denaro. A Roma, come nel resto del nostro Paese, si vivono tempi difficili dal punto di vista economico, la crisi porta il popolo a tirare la cinta, rivedere stili di vita e trovare il modo di arrivare con lo stipendio fino alla fine del mese. Roma nei secoli ha vissuto crisi di tutti i tipi; carestie, pestilenze, assedi, invasioni e tiranni hanno lasciato una forte impronta sia nel tessuto urbano sia nella tradizione popolare. “Nun c’è trippa pe’ gatti”, ad esempio, è l’eloquente espressione usata per dire che non ci sono più soldi oppure che non si fa alcun credito. Si potrebbero immaginare quei felini che aspettano invano davanti alla bottega del macellaio per rimediare un pezzetto di carne che non arriverà mai. Invece il detto ha un’origine ben definita: nel 1907, il sindaco di Roma, Nathan, in cerca di modi per risanare il bilancio cittadino in crisi nera, depennò dalla lista di pagamenti la trippa per i gatti che il comune acquistava per i mici del centro storico, tanto utili per eliminare i topi. Nathan ritenne quella spesa uno spreco e per risparmiare annunciò pubblicamente che a Roma non ci sarebbe più stata trippa per gatti.

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Trippa alla romana

 

  • 1 k di trippa
  • 2 fette di guanciale
  • 400 g di pomodori pelati
  • Una cipolla
  • Una costa di sedano
  • Una carota
  • Uno spicchio di aglio
  • Olio extravergine di oliva q.b.
  • Menta romana
  • Pecorino romano grattugiato
  • Sale e pepe o peperoncino
Ingredienti per 4 persone

La trippa si acquista normalmente già prelessata. Il metodo di lavaggio e di lessatura ne condiziona ovviamente il sapore. Per pulirla vengono usati a volte prodotti che la rendono bianchissima ma insapore; è preferibile acquistare quella grigia o scura e quindi non “candeggiata” o troppo cotta. Se possibile acquistate la trippa intera senza farvela affettare, sciacquatela e mettetela a bollire in abbondante acqua salata in ebollizione insieme a una carota affettata, una costa di sedano a pezzi, una cipolla e un mazzetto di prezzemolo. Fate riprendere l’ebollizione quindi abbassate la fiamma al minimo e proseguite la cottura per circa tre quarti d’ora. Lasciatela raffreddare e nel frattempo preparate un trito con il guanciale, la cipolla, la carota, il sedano, e lo spicchio d’aglio. Scaldate l’olio in un tegame di terracotta e fate appassire dolcemente il battuto mescolando spesso. Affettate la trippa a striscioline e versatela nel tegame quando il soffritto comincia a prendere colore. Fate insaporire per qualche minuto mescolando, quindi unite i pelati sminuzzati, salate e pepate e proseguite la cottura per circa un’ora. Durante questo tempo mescolate spesso e unite un mestolo di brodo o acqua calda quando necessario tenendo presente che alla fine la trippa deve essere immersa in un sugo abbondante. A cottura ultimata, versate la trippa nel piatto da portata e completate il piatto con abbondante pecorino grattugiato e foglioline di menta sminuzzate.

 

Riferimenti:

 

Petto di vitella alla fornara

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Il petto di vitella alla fornara è uno dei piatti tipici, forse dimenticati, della cucina laziale. Quella cucina laziale povera, del popolino, essenziale, fatta con le parti meno nobili dell’animale.
Un piatto che richiede davvero pochissimi ingredienti e la cui unica attenzione va fatta sui tempi di cottura.
Quei pochissimi ingredienti, genuini ed il sapore della carne ne fanno un piatto davvero ottimo. La patate cotte nella stessa teglia sono la morte del petto di vitella alla fornara, anche se, diciamolo, ne aumenta l’apporto energetico.

petto di vitella alla fornara

Alla “fornara” perché pare “…ispirato alla “Fornarina”, tale Margherita Luti, la leggendaria donna, figlia di un fornaio di Trastevere, che Raffaello immortalò nelle sue pitture.

La storia racconta che una quarantina di patrioti romani superstiti dei motti insurrezionali iniziati nella capitale dello Stato Pontificio, il 25 ottobre 1867 stessero aspettando l’arrivo di Garibaldi per far insorgere Roma contro il governo di PIO IX.  Riunito da giorni in un palazzotto di Trastevere, il gruppo era incoraggiato da Giuditta Tavani, giovane donna di 37 anni, madre di 4 figli con in grembo il 5° , figlia del proprietario del lanificio Ajani sede del ritrovo dei patrioti.
Quel 25 ottobre 1867, Giuditta Tavani, solita preparare i pranzi, cucinò proprio il petto di vitello alla fornara.
Oggi, in corrispondenza del palazzo che una volta era il lanificio Ajani, si erge il busto di Giuditta Tavani Arquati con una lapide a ricordo di quel tragico eccidio dei patrioti romani.

Fonte

La ricetta del petto di vitella alla fornara

petto di vitella alla fornara

  • 1 kg circa di punta di petto di vitello
  • 2 o 3 spicchi d’aglio
  • rosmarino
  • salvia
  • olio extra vergine di oliva
  • 1/2 bicchiere circa di vino bianco secco
  • sale, pepe q.b
  • 1 kg di patate (facoltativo)
ingredienti per 6 persone

Preparazione : 

  • Preparate un battuto con gli aromi – io non ho battuto l’aglio, ma semplicemente diviso in parti ed inserito nelle intaccature della carne –  unite l’olio extravergine di oliva, il sale ed il pepe. Ricoprite il pezzo di carne con la marinata e lasciate insaporire così per un’oretta.
  • Trascorso il tempo trasferite la carne con tutta la marinata, in una teglia unta a filo con dell’olio extravergine di oliva.
    Infornate a calore medio – 190° – per circa un’ora avendo cura di bagnare spesso la carne con il fondo di cottura e unendo verso la fine mezzo bicchiere di vino bianco secco.
    Se decidete di unire le patate, una volta spellate, tagliatele a quadretti non troppo grossi e cuocetele insieme alla carne.
  • A cottura ultimata servite il petto di vitella alla fornara a fette alte circa un dito, accompagnandolo con il sughetto.

petto di vitella alla fornara

Il “difficile” è tutto qui, nella giusta cottura: regolatevi in base al vostro forno, che solo voi conoscete.
Curate di tenere sempre “bagnato” il pezzo di carne. Alla fine deve risultare croccante fuori e morbido dentro.

 

 

 

 

 

 

Funghi brodettati

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Oggi prepariamo i funghi brodettati con quell’arte del “brodettato” che oramai sta sempre più scomparendo. E me ne dispiace. A Roma si cucinava tanto in questa maniera. Una volta si trovava spesso anche nelle trattorie  l’abbacchio brodettato (che trionfava sulle tavole soprattutto a Pasqua), il gallinaccio (tacchino) brodettato …. ecc ecc. E anche i funghi sono deliziosi in questa maniera. Ma in che consiste il “brodettato”? Vuol dire legare, insaporire un determinato piatto al tuorlo d’uovo battuto con il limone.

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